di Andrea Salvadori
“Amori, altopiani e macchine parlanti“. Sei partito dalla fine o dall’inizio per costruire il tuo romanzo? Sapevi dove volevi arrivare quando hai cominciato a scrivere?
Ho cominciato dall’inizio, banalmente, ma era un altro inizio. Anzi ci sono stati altri tre inizi prima di quello definitivo. Al tempo del primo inizio non avevo la più pallida idea non solo del finale ma dello stesso intreccio, dei personaggi che avrei scelto (salvo un paio), dei luoghi. Sapevo solo che, leggendo e viaggiando avevo maturato tre o quattro contesti e altrettanti possibili embrioni di storie. E che più che riempire dovevo scremare, arrivare a una massa utilizzabile, a un materiale adatto a raccontare una “grande” storia, un sogno, una speranza, una ragione di vita, un motivo per non morire pieni di rimpianti: chiamatelo come volete. Questo lo sapevo.
Racconti un lungo viaggio: un viaggio vero e proprio che parte da New York, arriva in Patagonia e risale lungo le Ande fino al Perù. Ma racconti anche un viaggio metaforico che il protagonista compie dentro di sé. Sono due viaggi paralleli, estremamente impegnativi. Quale ti è costato più fatica? In che modo hai risolto il rapporto tra loro?
Sono state due fatiche diverse. Il primo è stato sicuramente il più faticoso in termini di lavoro di ricerca e di stesura. Il secondo è costato la fatica di seguire il percorso interiore di Viani, e non solo di Viani. Un impegno di affinamento, di continuo cambio di registro, di scelte di dettagli decisivi. A quel livello si giocano la profondità, il senso, la misura, la credibilità, il fascino dei protagonisti. Fascino per chi legge, ma anche per chi scrive. Come ho risolto il rapporto tra i due viaggi non lo so. Non so nemmeno se l’ho risolto, ma se l’ho fatto è stato grazie all’istinto mescolato a un po’ di mestiere.
Fascino dei personaggi, hai detto. Tra loro ce n’è qualcuno ispirato a personaggi reali, a parte Caruso, Fitzcarrald e i tre bandidos, ovviamente?
Certo. Il doctor Frisancho è una sintesi di due fratelli di Puno: uno medico, l’altro giornalista. Di Ernesto Leonardi Católica de Giménez, e del teatro Mitre di Jujuy, mi ha raccontato un suo pronipote. La storia di Maria Linda fa parte dei ricordi di Doña María Luisa di Sucre. Così come la strage di Ayo Ayo e il gioco dei gusci d’uovo. Lucio Cusihuaman e suo cugino Angel lavorano in Calle Loreto, a Cuzco. E ancora altri.
In quello che scrivi si coglie la grande fascinazione che esercitano su di te i primi fonografi. Quando li hai scoperti? Dove li hai visti?
Quasi tutte le “prime” macchine, i “primi” apparecchi esercitano su di me un grande fascino. E tra questi una macchina che riproduce le voci e soprattutto, i suoni, cioè la musica, è fantastica, straordinaria di per sè, è più incredibile (fatte le debite proporzioni) di qualsiasi meraviglia elettronica. E poi la bellezza: le trombe dei grammofoni a cavallo del secolo erano capolavori cromatici di design e di ricercatezza.
C’è da dire che questo tuo amore si respira nelle pagine del romanzo. Le tue descrizioni fanno venire voglia di vederli davvero, questi fonografi. Ma andiamo avanti: quando scrivi un capitolo ne tracci prima la struttura o procedi senza sapere che cosa succederà nella pagina successiva?
In genere che cosa succede una, cinque, dieci pagine più avanti lo so. Anche se può cambiare, naturalmente: l’intuizione è un regalo del cielo e un piacere da assecondare senza riserve.
Ho letto che tu hai rifatto pari pari il viaggio di Viani: non a dorso di mulo, immagino. Come l’hai organizzato? Quanto tempo ci hai messo per portarlo a termine?
In quei luoghi c’ero già stato più volte. Quando la trama ha cominciato a prendere corpo nella mia testa ci sono ritornato per un paio di mesi e ho rifatto esattamente il percorso di Viani. Ho conosciuto personaggi “letterari”, ho ascoltato vecchie storie, e molto di questo è finito direttamente nel romanzo.
Dunque se un lettore partisse per la Patagonia con in tasca il tuo libro e volesse seguire lo stesso percorso fino al Perù, sulle tracce di Viani, cosa gli consiglieresti?
Di salire su un autobus e seguire Viani tra le pagine del romanzo, in Patagonia e sull’altopiano. Ritroverà quasi tutto: paesaggi, colori, luci e palazzi. E perfino qualche personaggio. In carne e ossa.
Quali musiche suggeriresti di mettere sul suo iPod (immaginando che ce l’abbia) a chi legge il tuo romanzo o a chi rifà pari pari il viaggio di Viani?
Se vuole seguire le stesse piste sonore che ho seguito io, direi qualche raccolta d’epoca fine Belle Époque e Vaudeville, fino all’inizio degli anni Venti (se ne trovano in commercio tipo Gran Café Concerto oppure Salon to Swing dove ci sono anche alcuni pezzi citati nel romanzo). Scott Joplin per i capitoli con Etta e i due, eventualmente anche qualcosa di Sidney Bechet (non troppo, però) e una delle raccolte del Titanic. Poi, fammi pensare… del chill out non etnico, qualcosa di Filippa Giordano, i Pink Floyd (Delicate Sound Of Thunder, live), un tango prima maniera. Naturalmente Caruso e qualche aria di Aida.
Butch Cassidy e Sundance Kid. Come mai hai scelto di inserire un argomento che avrebbe potuto essere considerato abusato da cinema e letteratura?
Francamente non mi sono mai posto il problema. Le vicende sudamericane dei tre – presi individualmente o insieme – sono coinvolgenti. Anche per un certo anticonformismo che non ti aspetteresti di trovare su un set oleografico e stereotipato come il Far West.
Basti pensare alla faccenda delle foto, o del presunto triangolo. Etta, poi, di per sé è un personaggio già pronto per qualsiasi tipo di fiction.
A questo proposito, qual è la tua opinione sulla controversa notte di San Vicente? Erano proprio quelli di Butch e Sundance i corpi crivellati di colpi rimasti sul terreno dopo la sparatoria?
«Se volete scrivere una storia vera, scrivete un romanzo … » che l’invito venga da John Joerschke, uno che molto ha lavorato e scritto intorno all’epopea dell’Ovest americano, non è casuale. Quel mondo è quanto di più plastico si possa immaginare, impastato com’è di mezze verità, esagerazioni, calunnie. Tutta roba da guardare in controluce, da interpretare.
Non hai risposto alla domanda.
D’accordo. No, i corpi non erano quelli di Butch e Sundance.
Viani è capace di sognare, don José è capace di sognare. Chi altro sogna, nel romanzo?
Tutta la compagnia, Casimires e i suoi cacique (sembra un numero di varietà), Fitzcarrald ovviamente. Anche Etta e gli altri hanno un sogno. Questo romanzo è un ritrovo di visionari, è arredato per loro.
E tu sei capace di sognare?
Io sono nella lista, se posso attaccarmi una medaglietta.
Cosa stai scrivendo, adesso?
Un’altra storia, con gente che cerca di uscire dagli standard, di usare la vita per vedere dove si può arrivare, per divertirsi. Uno spazio e un tempo dove succedono cose. Qualcuno le vuole, qualcuno le subisce, qualcuno tutte due le cose.
C’entrano il viaggio, il sogno?
Il viaggio e il sogno c’entrano sempre. Viaggiare e sognare: mescolando continuamente l’infinito e il gerundio di questi due verbi, già si comincia a entrare nel gioco, a salire sulla giostra, sull’ottovolante, sulla torre, a scendere nel pozzo o nelle stanze segrete che ognuno di noi ha dentro di sé.
Adesso quello che manca è una polaroid di “Amori, altipiani e macchine parlanti”. Ne scattiamo una insieme?
(ride). D’accordo. Ma non una polaroid! A me piacciono le foto in posa, costruite. Quelle con i fondali dipinti, i fiori di carta e tutti disposti ordinatamente, con la faccia seria. Il contrario di cheese! Dunque mi piacerebbe un ritratto di tutti i personaggi (ma ci sarei anch’io in un’autocitazione laterale alla Hitchcock) e lo sfondo… lo sfondo sarebbe quello dell’ultimo capitolo. Chi ha letto il libro sa bene perché.